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Gemelli, Rosmini e l’accusa di fenomenismo

In this article the author suggests the philosophical analysis of the relationship between religious knowledge, faith and secular scientific knowledge. This analysis is carried out in the framework of phenomenological reconstruction. The author explores medieval and later scientific debates about the role and place of religion, medieval scholasticism in the concepts of constructing philosophical worldviews. In his analysis the author places particular emphasis on the works of the Italian thinker A.Rosmini. The author comes to the conclusion that the symbiosis of secular knowledge and faith are essential in the context of modern global transformations.

Il 16 Aprile 1919, il francescano milanese Agostino Gemelli dà vita all’Istituto di Studi Superiori «Giuseppe Toniolo», che viene riconosciuto quale Ente morale da Benedetto Croce, Ministro della Pubblica Istruzione, e che realizza l’istituzione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (1921); il neonato Ateneo viene a coronare il sogno di una Università dei cattolici italiani, e promuove una filosofia cristiana ispirata soprattutto all’alto magistero di San Tommaso d’Aquino. Alla luce tale impostazione, il sistema filosofico e teologico di Antonio Rosmini viene considerato non accettabile, in quanto ispirato al fenomenismo moderno, anziché al realismo tomistico. L’esame della prima grande critica dei filosofi dell’Università Cattolica al pensiero rosminiano, formulata da Grazioso Ceriani nel 1938, mostra che essa, in quanto basata sulla presunta dottrina della permanenza della prensione conoscitiva del soggetto umano al mero piano ideale, senza un vero attingimento del piano della realtà, va considerata infondata. Oggi, mentre la Chiesa ha recentemente riconosciuto tanto l’ortodossia delle posizioni di Rosmini quanto la sua personale santità, istituzioni culturali di tutto il mondo, con in testa l’Università Cattolica di Milano, ne hanno celebrato la statura di grande pensatore cristiano.

 «Se il nostro fosse un congresso religioso, nessun dubbio che Roma sarebbe il suo luogo. Non emana da Roma la luce e la verità religiosa? ma il nostro è un congresso Ora io vi domando: ci vien forse da Roma e dall’Italia la luce scientifica? […] Vi sono senza dubbio degli scienziati cattolici italiani. Ma dov’è la scienza cattolica italiana? Dove sono le sue alte scuole, i suoi istituti, le sue pubblicazioni? […] Guardiamo dunque che l’andata a Roma non segni la fine della nostra scientifica istituzione. Certo, se dovessimo seppellirla, non potremmo trovarle mausoleo più superbo; ma a noi corre l’obbligo di farla vivere e prosperare» [1].

Nel 1897, mentre la Chiesa era retta dal vegliardo Leone XIII, coadiuvato dalla mano esperta del cardinale Mariano Rampolla del Tindaro, e l’Italia vedeva tramontare l’età umbertina tra gli scandali finanziari ed il passaggio della direzione politica del Paese da Francesco Crispi a Giovanni Giolitti, mentre a Vienna Sigmund Freud ricavava dalla sua implacabile autointrospezione i fondamentali della psicoanalisi, ad esprimersi nei termini sopra ricordati era lo storico medievista belga Godefrod Kurth, il quale intendeva così opporre un deciso «no» alla proposta di tenere nella Città Eterna il successivo Congresso internazionale degli Scienziati cattolici.

Fu probabilmente proprio tale articolato giudizio — crudo ma tutt’altro che privo di fondamento — ad indurre Giuseppe Toniolo, che di esso ebbe immediata contezza, a rompere gli indugi, ed a porsi come il collettore di voti ed istanze, espressi ed inespressi, ma ben documentabili storicamente, miranti alla realizzazione del principale dei traguardi che — sul piano culturale — la cattolicità italiana si era data nel quadro del giovane Stato unitario: l’edificazione di una Università Cattolica. Frutto di tale impegno del sociologo veneto, furono la fondazione della Società cattolica italiana per gli Studi scientifici (1899), intesa come  il primo passo in direzione del conseguimento del vero obiettivo, ed una articolata riflessione circa le modalità di azione più opportune onde arrivare a quest’ultimo.

Appare dunque naturale che proprio a Toniolo guardi il giovane Edoardo Gemelli, il quale, vestendo l’abito francescano dei Frati Minori con il nome di fra’ Agostino, decide di incanalare le sue esuberanti energie in direzione del grande compito della promozione della scienza in armonia con la fede [1].

Rampollo dell’industriosa borghesia lombarda, si scopre una vocazione scientifico-medica, che lo induce ad iscriversi nel 1886, diciottenne, alla Facoltà di Medicina dell’Ateneo pavese, ove predomina — in questi anni — un orientamento positivistico di tipo darwinista, da cui il giovane Edoardo non resta immune, anche per la relazione di discepolanza che lo lega al grande scienziato Camillo Golgi, al quale nel 1906 — quattro anni dopo aver laureato il giovane Gemelli — verrà assegnato il Premio Nobel per la Medicina. Nell’anima gemelliana, alla fede nella scienza si affianca la fede nel verbo socialista, sino a quando, nel 1903, l’ «inquietudine del divenire» del giovane medico, non approda al «risultato calmo» della conversione alla fede cattolica [2, 3].

«Sui ‘motivi’ di questa conversione,» — ha scritto Maurizio Mangiagalli — «tutte le fonti concordano nel rimarcare sotto il profilo umano il peso rilevante dell’amichevole sollecitudine di Ludovico Necchi — direttamente e indirettamente, cioè anche attraverso le persone contattate da Necchi e fatte conoscere a Edoardo, come Giandomenico Pini -, il compagno che con Gemelli aveva percorso l’intera carriera scolastica, dal Parini a Pavia; l’amico Necchi ma, insieme, strenuo avversario quale cattolico di stretta osservanza e cattolicamente militante anche in campo politico; amico autentico, dunque, di Edoardo; amico per il quale Gemelli nutriva una più o meno velata ammirazione, invidiandogli particolarmente la serenità, l’autodominio e la padronanza delle passioni, nonché l’equanimità, promananti dalla sua fede, secondo un esempio che alla lunga lo sedusse» [2; 44].

Lo stesso anno 1903 vede il giovane milanese entrare come novizio nell’Ordine dei Frati Minori, presso i quali, tra il 1907 ed il 1908, diventa professo solenne e sacerdote.

A conferirgli il sacerdozio, è il Beato cardinale Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano, che due anni prima, vale a dire in quello stesso 1906 nel quale Camillo Golgi viene insignito del massimo riconoscimento per uno scienziato, ha l’ispirazione di invitare insieme, al suo desco, il giovane francescano e Désiré Mercier, fondatore della Scuola neoscolastica belga, e — di lì a poco — cardinale arcivescovo di Malines. Da questo primo incontro, scaturiscono certamente significative convergenze in ordine alle strategie da adottare per la più efficace promozione della cultura cattolica, in un mondo che consuma le sue ultime illusioni scientiste di indefinito incremento del progresso e di illimitata espansione del benessere, prima  che l’attentato di Sarajevo dia il via alla «inutile strage», aprendo così le porte al secolo breve dei totalitarismi.

A parlare di «inutile strage», sarà — come è noto — Benedetto XV, «di questo Ateneo istitutore munifico», recita una lapide posta nel primo chiostro di quella che è oggi la sede principale dell’Università Cattolica di Milano, in quel Largo di Piazza Sant’Ambrogio che a Gemelli è intitolato. Ma prima di arrivare al compimento dell’impresa, occorre che ci soffermiamo sulla dialettica idealmente intercorrente tra Gemelli, Mercier e Toniolo. Infatti, successivamente all’incontro milanese tra il francescano lombardo ed il prelato belga, il primo matura l’idea di fondare in Italia un Istituto Superiore di Filosofia sul modello di quello lovaniense; si reca allora in Belgio per un nuovo incontro con il porporato, e ne scrive a Toniolo in una lettera del 9 Maggio 1907 [2; 46,47,54].

«Chiarissimo Professore» — così Gemelli a Toniolo — «Quando ella fu a Milano io le feci cenno della necessità che io sento di dare un maggiore impulso al progresso delle scienze nel nostro campo. Ricordo che trovai ella del mio medesimo parere. Tale idea è andata in me maturando e oggidì sento tanto più viva tale necessità perché da molti si parla di cultura e di rinnovo urgente di cultura e se ne parla appunto da quelli che meno di altri hanno cultura o disposizione per dare impulso alla cultura […]. Di tale idea anzi parlai in un lungo colloquio con S. E. il cardinal Mercier e lo trovai del medesimo pensiero. Anzi dal nostro colloquio maturò l’idea che in Italia abbia a sorgere un istituto scientifico che abbia, almeno nella forma modesta ed iniziale che si conviene alle opere cristiane, lo scopo di incanalare le indagini degli studiosi, di rendere facili ad essi i mezzi di studio, di rendere più vivi gli scambi di idee tra di loro, ecc.» [1; 39–40].

L’esempio di Mercier, la cui cattedra di Filosofia tomista — della quale era titolare a Lovanio, dal 1880

— era divenuta, nel 1889, l’École de Philosophie de Saint Thomas, per poi dar luogo all’Institut Supérieur de Philosophie, ha evidentemente fatto breccia nell’animo del religioso milanese, il quale pensa di emulare l’esperienza belga, fondando in primo luogo una rivista, che possa riproporre alla comunità filosofica, smarrita nelle secche del declinante positivismo, l’attualità perenne di quel filosofare nella fede, che aveva raggiunto le vette più elevate della speculazione teoretica nella grandiosa costruzione sistematica del Dottore di Aquino: la «Rivista di Filosofia neo-scolastica», sorta nel 1909, ed ispirata sin dal titolo alla mercieriana «Revue néoscolastique de Philosophie», nata nel 1894 [2; 67].

Il 13 Gennaio 1909, a Firenze, la Libreria Editrice Fiorentina dà alle stampe il primo fascicolo, redatto, oltre che da Gemelli, da Giulio Canella (uno studioso di problemi filosofici, pedagogici e morali, che dal dissenso rispetto alla linea gemelliana verrà presto indotto ad abbandonare l’impresa [2; 67, 85–89]), dal   medico Ludovico Necchi, l’antico sodale di padre Agostino che garantirà un solido ancoraggio del periodico ai problemi della scienza, e da quattro ecclesiastici: Emilio Chiocchetti, Amato Masnovo, Francesco Olgiati e Giacinto Tredici: il nerbo della futura Facoltà di Filosofia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Di particolare interesse, pertanto, diviene l’editoriale di presentazione della rivista, intitolato semplicemente Il nostro programma, laddove al problema centrale della speculazione filosofica, individuato nella questione criteriologica, vale a dire nella necessità di rinvenire un criterio oggettivo che sancisca la rispondenza al vero delle conoscenze umane, viene offerto quale soluzione l’appello alla realtà in tutte le sue dimensioni, intesa come largamente eccedente le anguste vedute dei corifei del positivismo [2; 78–82, 4; 249–250].

«Da questa impostazione programmatica» — osserva Michele Lenoci — «sono fatte discendere, allora, due conseguenze: un rinnovato rapporto con il pensiero moderno, ancorché non privo di spirito critico, e la ripresa del tomismo, che non sia mera ripetizione di tesi antiche e antiquate, ma cerchi di confrontarsi con le domande e le esigenze della modernità. Da un lato, il neotomismo non dovrà cercare di adattarsi al pensiero moderno, ripetendo gli errori compiuti dal modernismo, ma dovrà compiere un processo di assimilazione, più conforme allo sviluppo tipico di un organismo vivente, quale avrebbe da essere la cultura filosofica ispirata dal Cristianesimo. Mentre, infatti, l’adattamento è un processo passivo ed estrinseco, che perviene a una mera giustapposizione di sistemi fra loro diversi, andando a scapito di quell’unità strutturale che dovrebbe essere il sigillo del vero, l’assimilazione implica un’attività intrinseca, peculiare di ogni forma vivente e testimonianza di vitalità […]. D’altro lato, Gemelli intende proporre al neotomismo una terza via rispetto a quelle percorse in quegli anni: tra chi vede nella filosofia tomista il prodotto geniale di un’epoca ormai definitivamente tramontata e chi si limita a commentare il pensiero dell’Angelico, ritenendo che in esso si  trovi la risposta anche ad ogni problema emerso successivamente, è necessario interpretare la storia come un’unità dinamica, cosicché anche affermazioni errate o discutibili, ove siano corrette e depurate delle loro esagerazioni, possono essere accolte nella philosophia perennis» [4; 255–256].

L’ispirazione speculativa della futura Università Cattolica risulta, così, largamente prefigurata dalle linee-guida imposte da Gemelli alla rivista. La cultura nazionale, tuttavia, vede già profilarsi nuovi orizzonti, preparati e promossi da quella che è stata denominata l’eroica incontentabilità di una generazione [5; 5–8]: alla Firenze di Prezzolini e Papini, del «Leonardo» e della «Voce», Croce e Gentile rispondono, da Napoli, con «La Critica», fondata in quello stesso 1903 che vede il giovane Edoardo Gemelli farsi cattolico e frate minore. Mentre in un primo tempo il fiorente neoidealismo italiano, frutto di divergenti ripensamenti della tradizione hegeliana dell’Ottocento, sarà compagno di strada dei neoscolastici raccolti intorno al francescano milanese nell’opera di rimozione delle residue prospettive naturalistiche, positivistiche e scientistiche, in seguito Croce e Gentile, sia da sodali sia da reciprocamente dissidenti, diventeranno i nuovi termini dialettici della lotta filosofica e culturale degli uomini di Gemelli. Bisognerà attendere la seconda generazione della Cattolica, con Bontadini, per assistere ad un tentativo di recupero della dimensione più profonda della riflessione speculativa di Giovanni Gentile, e la terza generazione della stessa, con Bausola, per assistere ad un approccio più pacato ed aperto a quello «strumento di lavoro», nel quale — a dire dello stesso filosofo abruzzese — si concreta l’immane opera di Benedetto Croce [2].

Mentre la «Rivista di Filosofia neo-scolastica» muove i suoi primi passi, l’attivissimo Gemelli realizza un’altra tappa in direzione della fondazione dell’Ateneo cattolico: la costituzione, nel  1910, dell’Associazione Pro cultura, finalizzata alla riaffermazione della vitalità del cattolicesimo nel campo del pensiero e della scienza. Questa dualità — il pensiero e la scienza — risulterà alla fine decisiva in ordine all’impostazione dell’impianto originario di quella che sarà l’Università Cattolica del Sacro Cuore; infatti, al momento dell’inaugurazione (7 Dicembre 1921), l’Ateneo milanese risulterà costituito da due Facoltà: quella di Filosofia, frutto del lavoro svolto attorno alla «Rivista di Filosofia neo-scolastica», e quella di Scienze Sociali, alla quale darà corpo la scuola socio-economica di Giuseppe Toniolo, che si esprime nella «Rivista internazionale di Scienze sociali ed ausiliarie», fondata dal sociologo veneto nel 1893 (al momento del riconoscimento ufficiale dell’Ateneo gemelliano da parte dello Stato, nel 1924, si renderà necessario adeguare le due Facoltà agli ordinamenti statali vigenti, per cui sorgeranno le Facoltà di Lettere e Filosofia, e Giurisprudenza). Ispirazione gemelliana ed ispirazione toniolina si fonderanno armonicamente nella nuova Università dei cattolici italiani, la quale potrà così costituire, nel contempo, un luogo di esemplare manifestazione della libertà d’insegnamento, una fucina di studi e ricerche, una sede di formazione didattica e scientifica di alto livello, un modello di organizzazione ed efficienza [6; 26–36; 28, 30].

Un punto di arrivo della messe di sforzi preparatori sinora richiamata, che già lascia presagire il frutto più maturo, si ha nell’autunno del 1914, allorché Gemelli, Olgiati e Necchi fondano la rivista «Vita e Pensiero», che gemmerà l’omonima Casa editrice (la prima Casa editrice universitaria d’Italia, in ordine cronologico e non solo), e che — una volta costituita l’Università — verrà diretta dai vari Rettori che si succederanno via via, configurandosi, in questo modo, come una sorta di bussola e di segnavia della politica culturale dell’Ateneo del Sacro Cuore.

Lascia intendere quella che sarà l’ispirazione originaria di tale politica culturale, già l’editoriale del numero 1, datato 1° Dicembre 1914. In questo suo scritto, intitolato Il medioevalismo, Gemelli esprime a chiare lettere l’idea che la cultura, fecondata dal riferimento alla fede cristiana, può comporre le dimensioni che la costituiscono in una costruzione armonica, sì da esplicare appieno tutte le potenzialità di cui è gravida: come è accaduto nel Medioevo, il quale ha donato alla civiltà europea e mondiale, tra le altre realizzazioni, un’istituzione come l’Università. Allontanandosi dalla fede cristiana, la civiltà europea si è gettata nelle secche di un isterilimento inesorabile e progressivo, che l’ha condotta alla perdita della propria anima più autentica, come è attestato dalla natura perversa e barbara dell’appena iniziato conflitto continentale [7, 8].

All’entrata in guerra dell’Italia, padre Gemelli, su sua stessa richiesta, viene chiamato alle armi, e designato capitano medico e cappellano dello Stato Maggiore. «La convinta collaborazione con le autorità militari, la pubblicazione di articoli esaltanti il sentimento nazionale e la stessa libertà con la quale svolgeva l’attività pastorale e le cerimonie religiose al campo,» — osserva Nicola Raponi — «suscitarono perplessità nei suoi superiori religiosi e lamentele giunte fino alla Segreteria di Stato vaticana; ma quegli atteggiamenti apparivano a molti altri come l’espressione di una ritrovata conciliazione fra amor di patria e religione. L’aperto patriottismo professato dal Gemelli contribuì, in tal modo, a dargli un maggior prestigio presso l’opinione pubblica nazionale ed egli se ne avvalse anche per la realizzazione, finita la guerra, del progetto di una università cattolica, antica aspirazione del mondo cattolico italiano» [9; 29].

I tempi sono ormai maturi per il grande passo. Il 16 Aprile 1919, padre Gemelli dà vita all’Istituto di Studi Superiori «Giuseppe Toniolo», che viene riconosciuto quale Ente morale da Benedetto Croce, Ministro della Pubblica Istruzione nel quinto ed ultimo Governo di Giovanni Giolitti, in data 20 Giugno 1920, e che promuove l’istituzione dell’Università Cattolica di Milano; il neonato Ateneo viene dedicato al Sacro Cuore, un oggetto classico della pietà cattolica dell’età moderna, e canonicamente eretto dalla Santa Sede nel giorno di Natale dello stesso anno 1920 [10; 878–879, 11; 1771].

La fisionomia dell’Università del Sacro Cuore viene ulteriormente precisata da Benedetto XV nel Breve Cum semper, del 9 Febbraio 1921, ed il 7 Dicembre dello stesso anno, nella solennità di Sant’Ambrogio, si arriva alla agognata inaugurazione. Questa, per quanto solennizzata dalla presenza dell’arcivescovo di Milano, cardinale Achille Ratti (che diverrà, di lì a pochi mesi, Papa Pio XI), e del ministro della Pubblica Istruzione, onorevole Antonino Anile, si esprime essenzialmente nella forma di una festa di popolo: di quel popolo credente, cioè, che vede coronati, nel momento presente, decenni di lotte, sudori e fatiche [12].

«I cattolici vivono d’una fede moribonda, d’una fede stanca, d’una concezione oltrepassata, d’una mentalità anacronistica, d’un moncone o mozzicone d’idea — che pur così ridotto è sempre meglio del nulla ideale al quale l’Università di Stato si è ridotta» [13].

È la prosa sulfurea di Giuseppe Prezzolini a dar voce, per mezzo di questi ruvidi fendenti, alle incertezze ed alle oscillazioni del mondo laico dinanzi alla riuscita dell’impresa gemelliana. A lacerare radicalmente l’intellettualità italiana, tuttavia, sarà l’avvento di Mussolini e del fascismo, rispetto ai quali Gemelli e i suoi, a ben vedere, assumono un atteggiamento globalmente qualificabile come di tolleranza strumentale, piuttosto che di concordia connivente: è al Medioevo che gli uomini della Cattolica continuano a guardare, come al periodo nel quale l’umano peregrinare sulla terra era illuminato dalla primazìa dell’ordine divino, e quindi, almeno tendenzialmente, possedeva un riconoscibile orientamento al bene.

I drammi del Novecento obbligheranno la cattolicità intera, non soltanto quella italiana, a riprogrammare scelte e prospettive; ma ormai l’impetuoso francescano lombardo si era congedato dalla scena di questo mondo — il 15 Luglio 1959 — nella consapevolezza, di paolina memoria, di avere corso e combattuto la buona battaglia, preservando intatta la fede [14, 15].

«Nella storia dei rapporti fra Università Cattolica e Rosmini, fra scuola filosofica della Cattolica e rosminianesimo, mi pare […] che si possano distinguere tre fasi: una prima fase, dalla fondazione nel 1909 della «Rivista di Filosofia neo-scolastica» — che segue di appena tre anni la nascita della «Rivista Rosminiana» — fino ai primissimi anni dell’Ateneo di padre Gemelli, caratterizzata da un vivo interesse anche per il Rosmini; una seconda fase, databile dal 1924 alla fine degli anni Cinquanta, connotata da un fermo dissenso con la filosofia rosminiana e con i simpatizzanti di essa; una terza fase, dall’inizio degli anni Sessanta in poi (scomparsa della generazione dei fondatori: Gemelli nel 1959, Olgiati nel 1962; pontificato di papa Giovanni; inizio del concilio Vaticano II) caratterizzata da significative aperture e da un crescente interesse per Rosmini» [16; 248].

In questi termini, Nicola Raponi ricostruisce con maestria le tre fasi dei rapporti tra la gemelliana Università Cattolica e il movimento religioso e di pensiero, iniziato nei primi decenni dell’Ottocento dal pio abate di Rovereto.

Quale documento dell’originario interesse degli uomini della Cattolica per Rosmini, lo storico marchigiano menziona poi tanto il fatto che nel 1919 Gemelli chiede a Chiocchetti di redigere una monografia complessiva sul filosofo roveretano (sentendosi tuttavia rispondere che un tale studio avrebbe postulato di necessità l’esame integrale delle opere), quanto altre palesi espressioni di stima e di attenzione [16; 255].

È lecito domandarsi, di conseguenza, dove risieda il punto di svolta, rispetto a tale situazione originaria, e perché Raponi lo collochi con nettezza — come abbiamo visto — nel 1924. In quell’anno, in effetti, la Cattolica ottiene il regio riconoscimento; ormai, in veste di Università libera, è parte integrante dell’ordinamento accademico italiano, con la funzione ufficiale di rappresentarvi le istanze del pensiero cattolico, da decenni collocato, dai Sommi Pontefici Romani, sotto l’alto magistero del Dottore di Aquino: nell’Ateneo di padre Gemelli, per il platonismo cristiano di Antonio Rosmini non sembra esservi più posto [16; 256–257].

«Quest’anno abbiamo celebrato la gloria di santità di Pio X.Vi è stato un uomo più coraggioso di lui nello spezzare le trappole dei radicali francesi o i lacci dei liberali italiani? Di questi giorni a Roma si è ripreso il processo informativo sulle virtù di Pio IX. Il Pontefice, del quale la canaglia anticlericale voleva buttare nel Tevere le ossa quando si trasportavano dal Vaticano a San Lorenzo fuori le mura, fu colui che con il Sillabo, con la proclamazione del dogma della infallibilità pontificia, con la proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, arditamente riformatore ed innovatore, ci ha insegnato in che modo si possa salvare il mondo moderno dalla corruzione e dall’errore» [17; 409].

Queste parole di Agostino Gemelli, pronunziate l’8 Dicembre 1954 in occasione della Festa dell’Ateneo da lui fondato, esprimono con chiarezza il pieno allineamento dell’ormai anziano Rettore alla linea culturale del Pontificato di Pio XII. I cattolici, nel pensiero di papa Pacelli, sono chiamati a rendere presente nel mondo la Chiesa come societas perfecta, e ad operare nel mondo per avvicinarlo il più possibile a quell’ideale di societas christiana, concretamente realizzatosi nei secoli dell’età di mezzo; in tale ordine di idee, il dialogo — sia pur critico e problematico — con le istanze della modernità, avviato da Antonio Rosmini, non può trovare spazio, e la Cattolica, evidentemente, non può che adeguarsi.

Nel successivo 1955, ricorrendo il primo centenario della morte del pensatore trentino, Michele Federico Sciacca, professore di Filosofia teoretica all’Università di Genova ed alfiere del rosminianesimo, di concerto con la Congregazione religiosa fondata da Rosmini nel 1828 — l’Istituto della Carità — organizza un grande Congresso internazionale tra Stresa e Rovereto, dal 20 al 26 Luglio; l’Ateneo gemelliano, unico tra le Università italiane, non vi aderisce nemmeno formalmente [18]. In compenso, dedica al pensiero di Rosmini un fascicolo doppio della «Rivista di Filosofia neo-scolastica», fascicolo che viene edito nel contempo anche in veste di volume autonomo, e che consta di una rilevante raccolta di contributi, dovuti a vari autori [19].

«Ma il tono generale del volume» — osserva Raponi — «era dato da un lungo saggio — settanta pagine — di Francesco Olgiati, Antonio Rosmini e la filosofia classica, che confermava la critica di innatismo e di ontologismo alla filosofia rosminiana e ribadiva la validità delle tesi sostenute dai neoscolastici sul superiore valore teoretico della metafisica classica, negando ogni possibilità di inserire il pensiero di Rosmini nella storia e nell’orizzonte del tomismo e giudicando vani i tentativi delle «effimere ideologie contemporanee — ivi compreso il così detto spiritualismo cristiano — di voler proclamare con fragore di richiami che  Rosmini è il vero erede di sant’Agostino e di san Tommaso»» [16; 247].

Diversi anni or sono, lo scrivente ha analizzato e discusso e il saggio di Olgiati e il contributo — apparso nella stessa sede e di pari rilevanza — di Emanuele Severino [20–22]. Al presente, mette conto ribadire come l’intervento olgiatiano rappresenti ad un tempo il frutto e la sanzione di una linea filosofica e culturale di forte presa di distanza da ogni prospettiva non integrabile nei moduli della neoscolastica di matrice tomistica; nel contesto italiano, l’atteggiamento critico nei confronti del rosminianesimo risulta in qualche misura conseguente.

Ne è prova il fatto che l’interpretazione olgiatiana di Rosmini appare prefigurata nel volume, che il neoscolastico milanese Grazioso Ceriani aveva pubblicato nel 1938 sul tema L’ideologia rosminiana nei rapporti con la gnoseologia agostiniano-tomistica; proprio questo volume ci sembra utile, in questa sede, prendere in considerazione [23].

«Mi sono attenuto al di fuori delle polemiche teologiche, le quali saranno da osservarsi dopo la presentazione storica e la valutazione dottrinale del pensiero filosofico. Nell’ambito della filosofia, ho avuto di mira la ricerca dell’unità sistematica, dell’anima cioè del rosminianesimo. Mi occorreva infatti l’idea-madre del sistema per studiarne poi, in un secondo tempo, i molteplici elementi, in luce di quel filo centrale attorno al quale si svolge l’attività culturale e scientifica del Roveretano. Mi sono persuaso, su questa via, che, per intendere Rosmini, occorre fermarsi al momento gnoseologico del sistema, nel quale l’autore inizia e determina il suo pensiero metafisico. Rosmini, che incomincia il sapere filosofico cercando l’Unità nell’Enciclopedia delle scienze, la trova nel momento del Nuovo Saggio, ossia nel momento critico o gnoseologico. In questo lavoro sono arrivato alla conclusione che mi poneva su un piano metodico e ad un livello comuni con l’idealismo moderno: la filosofia si inizia nel momento gnoseologico in cui lo spirito conosce la realtà. Se così è, una diversa gnoseologia determinerà una diversa metafisica: e, mentre nel sistema idealistico l’inizio gnoseologico determina la metafisica del pensiero, nel tomismo l’inizio gnoseologico determina la metafisica dell’essere. Se dunque il momento gnoseologico mi orientava nella ricerca dell’anima del sistema rosminiano, poteva pure donarmi l’elemento metafisico per una valutazione dottrinale. Ecco perché, a determinare le relazioni tra Rosmini e il tomismo, il lavoro fondamentale consiste nell’esame critico dell’ideologia rosminiana nei confronti della gnoseologia agostiniano-tomistica» [23; V-VI].

L’obiettivo di Ceriani, cioè, è studiare a fondo la gnoseologia rosminiana, onde pervenire a giudicare l’ascrivibilità o meno della metafisica che da essa dipende all’interno della grande tradizione della philosophia perennis, che il Magistero cattolico ha additato culminare nella grandiosa sintesi di  Tommaso d’Aquino.

Ma già nella Prefazione, dalla quale abbiamo tratto il brano appena riportato, l’Autore palesa le sue conclusioni, secondo le quali la teoria gnoseologica di Agostino si colloca lungo la linea speculativa che conduce al tomismo, mentre quella di Rosmini costituisce una sorta di deviazione dalla strada maestra della filosofia cristiana, una deviazione che non permette al suo sistema di approdare alla metafisica dell’essere, pur se esso contiene una autentica istanza ontologica; il registro di pensiero a cui approda il Roveretano, appare viceversa agevolmente qualificabile come fenomenismo [23; VI-VII].

Proprio all’inizio della sua ponderosa disamina, Ceriani, quasi per offrire a Rosmini una qualche forma di attenuante, disegna attorno al Roveretano un panorama culturale problematico ed equivoco. Osserva, infatti, come il pensiero religioso, che si sviluppa in Italia nel primo Ottocento, e che trova i suoi principali esponenti in Ventura, Capponi, Lambruschini, Fornari e Gioberti, appaia sostanzialmente segnato da una iniziale ed esiziale confusione tra il piano della teoresi filosofica ed il piano del discorso che sorge a partire dalla Rivelazione religiosa; quest’ultima risulta così arbitrariamente razionalizzata, sì che l’approdo dichiaratamente immanentistico della speculazione di Gioberti se ne configura come un inevitabile corollario [23; 3–40].

Nella fattispecie, in che cosa la filosofia rosminiana della conoscenza colliderebbe con i capisaldi della gnoseologia tomistica? Principalmente in tre aspetti:

  • per Tommaso, il giudizio è l’atto conclusivo della cognizione, mentre per Rosmini la percezione intellettiva (l’equivalente rosminiano del giudizio di Tommaso) è l’atto essenziale della stessa;
  • mentre il giudizio tommasiano è conseguente all’apprensione della realtà, la percezione intellettiva rosminiana è condizione della medesima apprensione;
  • lo sforzo del tomismo, in questo ambito, mira ad approfondire il riverbero autocoscienziale della conoscenza, mentre il rosminianesimo rinuncia ad esplorare l’interiorità, giacché tende erroneamente ad identificarla con la soggettività idealistica [23; 339].

Traspare, da tale presa di posizione, una certa schematicità, accompagnata da una sostanziale non conoscenza di interi e decisivi settori della sterminata enciclopedia rosminiana. Ma continuiamo a ricostruire la struttura speculativa, anziché seguire lo svolgimento della trama testuale, di questa sorta di «corpo a corpo» ingaggiato da Ceriani — il quale comunque mantiene un atteggiamento di grande rispetto per l’uomo e per l’ecclesiastico — verso l’Abate di Rovereto.

Il vero ispiratore del sistema gnoseologico — ma Ceriani preferisce chiamarlo ideologico, giacché l’autentica gnoseologia sarebbe quella di Tommaso — elaborato dal pensatore trentino, andrebbe ravvisato in Immanuel Kant. Una posizione centrale, nella prospettiva teoretica del filosofo prussiano, è certamente occupata dall’Io penso, vale a dire dalla coscienza che lo spirito ha di sé come principio unificatore dell’esperienza, principio ponentesi a priori rispetto all’unificare concreto. A tale dottrina, si lega la visione kantiana del conoscere come sintesi, affermazione e giudizio, la quale risulta pienamente condivisa da Rosmini; sono allora da respingere, a giudizio di Ceriani, tutti i tentativi di accostare il Roveretano al versante platonico del pensiero occidentale, caratterizzato viceversa dalla dottrina della conoscenza come visione o apprensione. Chiaro ed esplicito, in proposito, è il riferimento di Ceriani al più volte ricordato francescano trentino Emilio Chiocchetti, che vari anni prima della pubblicazione del volume in esame, aveva tenuto per incarico la cattedra di Storia della filosofia moderna proprio nell’Università Cattolica (dal 1925 al 1930). Chiocchetti si era aperto, in nome della critica al positivismo, alla tradizione filosofica italiana, all’interno della quale si era interessato soprattutto a Vico, Croce e Gentile, giungendo a nutrire una forte simpatia anche per il suo conterraneo Antonio Rosmini [24].

Intervenendo nel 1924 in un volume, curato da p. Gemelli, celebrativo del secondo centenario della nascita di Kant, Chiocchetti aveva affermato la sussistenza, tra Kant e Rosmini, di una radicale opposizione speculativa, riassumibile nell’attribuibilità al primo di una posizione soggettivista, ed al secondo di una posizione oggettivista. Secondo il francescano, tra l’altro, mentre la sintesi a priori kantiana crea i termini che sintetizza, la percezione intellettiva rosminiana trova e congiunge i termini che essa sintetizza, vale a dire la sensazione dell’ente extrasoggettivo e l’idea dell’essere [25].

Secondo Ceriani, viceversa, le due sintesi sono accomunate dal fatto di essere originarie ed a priori, e quindi restano al di qua di ogni esperienza concreta ed effettiva; in altri termini, se non ci si lascia alle spalle l’idea dell’esistenza di un puro conoscere a priori, si rimane inesorabilmente confinati all’interno dell’orizzonte teoretico del kantismo. Ispirandosi alla kantiana sintesi a priori, Rosmini riduce la realtà a fenomeno che appare al soggetto, dando vita ad una forma di fenomenismo qualificabile come metafisica del pensiero, proprio perché la fondazione teoretica a priori di qualsivoglia conoscenza depriva quest’ultima di qualsiasi contenuto. Affinché allora la teoria rosminiana della conoscenza possa rendersi integrabile nel quadro della metafisica dell’essere, essa dovrebbe prevedere l’effettivo attingimento dell’essere ideale e del sentito; in altre parole, l’ideologia rosminiana dovrebbe trasformarsi nella gnoseologia tomistica, ma questo è impossibile (in realtà, nel medesimo contesto, Ceriani parla di «gnoseologia» anche a proposito della prospettiva di Rosmini) [23; 287–298].

Nella lettura che ne dà Ceriani, a Rosmini va in sostanza addebitata l’accettazione di due presupposti di stampo sensistico: la tesi secondo la quale lo spirito umano né coglie né produce l’universale, ma si limita a unire e a dividere, e l’idea della sensazione come mera impressione soggettiva, che non coglie l’ente in sé. Con tre conseguenze deleterie: la riduzione del sentito ad apparenza del senso; la parallela  riduzione dell’idea dell’essere ad apparenza dell’intelletto; il carattere necessariamente fenomenico, o di apparenza, della derivante sintesi di sentito e idea dell’essere nella percezione intellettiva, vale a dire nell’atto costitutivo della conoscenza propriamente umana [26].

Può di conseguenza ritenersi dimostrata, ad avviso di Ceriani, la sussistenza di una decisiva divaricazione tra la gnoseologia tomistica e la gnoseologia rosminiana, e quindi tra le due metafisiche ad esse collegate; alla domanda se il sistema rosminiano sia ascrivibile alla tradizione della philosophia perennis, non si può pertanto che rispondere negativamente [23; 373–388].

Ovviamente, il nucleo speculativo della critica di Ceriani a Rosmini va ravvisato nell’elemento che sostanzia l’accusa di fenomenismo; tale elemento, a ben vedere, si riduce al rilievo del mancato attingimento dell’essere reale da parte della rosminiana dottrina della conoscenza, la quale rimarrebbe così confinata al mero piano dell’»ideologia». In effetti, il difetto capitale della disamina cerianiana va collocato nel tentativo di ricavare la prospettiva metafisica dell’autore preso in considerazione, limitandosi allo studio di un suo trattato gnoseologico, e trascurando di esaminare quelle opere a cui l’autore stesso ha inteso consegnare la sua riflessione ontologica; se Ceriani — più correttamente — avesse preso in considerazione il Nuovo Saggio alla luce dell’intera produzione filosofica di Rosmini, avrebbe constatato la presenza, nello stesso Nuovo Saggio, di una prima distinzione tra l’essere in quanto sussistente e l’essere in quanto pensabile, che ben anticipa la rigorosa teorizzazione della radicale diversità tra la forma reale dell’essere e quella ideale, posta in atto da Rosmini — nella matura Teosofia — in serrato contrasto con la prospettiva hegeliana. Appunto in virtù di tale rigorosa teorizzazione, la tesi del carattere fenomenistico della speculazione rosminiana, sostenuta da Ceriani, in quanto basata sulla presunta dottrina della permanenza della prensione conoscitiva del soggetto umano al mero piano ideale, senza un vero attingimento del piano della realtà, non può che considerarsi infondata [21; 373–388].

Molta acqua — come suol dirsi — è passata sotto i ponti; nel corso del Ventesimo secolo, l’Ateneo fondato da Gemelli si è progressivamente aperto alle istanze del pluralismo filosofico e culturale, e — in particolare — alla grande lezione del Prete di Rovereto, grazie soprattutto all’influsso di un evento epocale come il Concilio Ecumenico Vaticano II. Mentre la Chiesa ha recentemente riconosciuto tanto l’ortodossia delle posizioni di Rosmini quanto la sua personale santità, istituzioni culturali di tutto il mondo, con in testa l’Università Cattolica di Milano, ne hanno celebrato la statura di grande pensatore cristiano.

Agli uomini del Ventunesimo secolo, spetta il compito di continuare a guardare alla sua grande figura, come a quella di colui che ha additato alla filosofia cristiana il suo impegno perenne, identificabile nella necessità di orientare la fatica del concetto alla edificazione dell’unità del sapere. 

 

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